«È un porfessor», ribattei. «Ci ha nome Thomas Galbraith».

«Lo so. Ho letto i suoi pensieri attraverso la mente del piccolo Sam. Un messere infido e periglioso. Mai conobbi un saggio che non lo fosse, eccettuato, quanto meno, Roger Bacon, il quale purtuttavia a corromper riuscii per... Roger era comunque un uomo eccezionale. Ma ritorniamo alla nostra quistione: nessuno, tra voi, andare in questa New York puote. Nell'istante preciso in cui questo paradiso noi lasceremo, nel preciso istante in cui qualche fellone su di noi indagherà, noi perduti saremo. Quel branco di lupi ci sbranerebbe. Né tutti quei tuoi scervellati voli verso il cielo ti salveranno, Lester... mi ascolti?»

«Ma allora, come, porco can...» sbotta mamma.

«Ah, diavolo» ci sbotta anche papà. «Me lo sbullono io, questo porfessor. Giù nella cisterna, io ce lo scaravento, e...»

«Basta là!» strilla mamma. «Per guastar l'acqua? Provaci, brutto bastardo, che...»

«Che razza di progenie schifosa è mai uscita dal mio seme?» sbraita il nonno, tutto incassato come non l'ho mai veduto. «Non avete forse allo sceriffo fatto solenne guarentigia che non ci sarebbero stati altri amazzamenti... almeno per un po'? La parola di un Hogben val forse meno d'una quisquilia? Due son le cose sacre da noi conservate attraverso i secoli — il nostro segreto agli occhi del mondo fellone, e l'onore degli Hogben! Uccidi questo Galbraith, e ne risponderai a me!»

Oh, ragassi, quasi ce la siamo fatta in te le braghe. E il piccolo Sam ci pensa prorpio in quel momento per svelliarsi di nuovo e mettersi a sbraitare. «Ma cosa l'è che di dovessimo fare, perdirindina?» fa il sio Les.

«Il segreto della nostra stirpe preservato dev'esser ad ogni costo», rimbomba mio nonno. «Fate quel che potete, gente, ma niente omicidi. Rifletterò sulla quistione».

E il nonno, a 'sto punto, ci pare proprio che si mette a dormir. Ma è diffisile dirlo.

Il domani, mi c'incontrai quel Galbraith lì in città, ma prima, chi ti c'incontro, o cavoli? Il sieriffo Albernathy, gente, che mi ci squadra prorpio di brutto, oh, gente.

«Basta là, Saunk», mi sbraita il sieriffo. «Guarda ben di tenerti dritto come un fuso. Pensaci, a quello che ti dico, furbastro». Tutto d'un imbarassante che non vi ci potete immaginare.

Ad ogni modo, vedo il Galbraith e ci dico che il nonno non mi lassia venire a Niuyorke. Lui ci si sforma un fottio, ma inquadra subito la situassione sensa rimedio.

Quella sua stansa d'albergo ci era strapiena di carabattole sientifiche da far paura. Ci aveva montato quel marchingegno del fucile, ma non ci aveva cambiato una virgola. Il porfessor incominsia a discutere.

«Non serve a niente», gli scarico là, di botto. «Lei ci può giudicar che non ci abbiamo nissuna intensione di lassiar le colline. Ieri l'ho sproloquiato a sproposito, e basta là»

«Ascolti, Saunk», mi fa, quasi coi lacrimoni, «ho chiesto in giro qui in città di voi Hogben, ma non sono riuscito a scoprire molto. Tengono la bocca chiusa, qui. In ogni caso, delle testimonianze puramente verbali non significano un granché. Ma io so che le nostre teorie sono giuste. Lei e la sua famiglia siete dei mutanti e dovete venir studiati!»

«Lei mi ci dice mutanti?» gli sbatto sul muso. «I siensiati ci dicono sempre il nome sballiate Roger Bacon ci chiamava homuncoli, lui che...»

«Cosa?» Ci urla il Galbraith. «Ha detto... chi?»

«Uh... un bifolco, qui, della contea viciniore», gli ci dico in fretta e furia, ma quel porfessor lì ci vedo subito che non la beve, e scominsia a trottar avanti e indrio come se ci abbiassi del pevare in te le mutande.

«E va bene», mi fa, di brutto, «se lei non verrà a New York, farò in modo che la fondazione mandi qui una commissione. Voi dovete venire studiati, per la gloria e il progresso dell'umanità!»

«Oh, Cristo» ci faccio, «sicuro come il mio bappi che l'andrà cussi. Tu ci sbatti su un bel baraccone di mostri, con bilietto da dieci cent, e noi tutti dentro col magone e il piccolo Sam che ci tira le cuoia. Tu, Galbraith, ora smammi e ci lassi soli e amici come prima».

«Lasciarvi soli? Quando siete in grado di creare un congegno come questo?» E ci si mette a sbavare sul marchingegno col fucile. «Come funziona?»

«Ma ti ci ripeto che non lo so. Ce l'abbiassimo messo su mamma e me, e basta. Ora te lo dico, porfessor: se ci capita qui delli altri insulsi a squadrarci con la siensa e tutte quelle siocchesse là, sarà un brutto guaio. Un guaio grossissimo, dice il nonno».

Il Galbraith tira su col naso.

«Be', forse... forse, se lei rispondesse a qualche mia domanda, Saunk...»

«Niente commissione di siensiati?»

«Vedremo».

«No, il mio caro porfessor. Io non ci...»

Il Galbraith ci caccia fuori un sospirone.

«Se mi dirà quello che voglio sapere, manterrò segreto il luogo dove vivete».

«Ma quella tua fondassione... non sa dove ti trovi tu

«Ah, sì», fa il Galbraith. «Certo, lo sanno. Ma non sanno di voi».

Mi ci spuntò un'idea. Sì, l'avrei potuto ammassare facile, ma se ce l'avessi fatto, il nonno mi ci avrebbe rovinato di qui a lì, e in più c'era quel rompiballe del sieriffo da pensarci. Cussi sospirai «Uffa!» e ci dissi di sì.

Oh, cavolo, le domande che mi ci fece il Galbraith! Giù di brutto come una mitralliatrice, e io che intanti mi sentivo cressere sempre dippiù l'eccitasione.

«Quanti anni ha suo nonno?»

«Oh, cavoli, e chi ce lo sa?»

«Homunculi, mmmm... Mi ha detto che un tempo era minatore?»

«No, quello ci era il papà del nonno», gli ho fatto la precisassione. «Miniere di stagno, in te l'Inghilterra. Solo che il nonno ci dice che la chiamavano Britannia, allora. Ma ci saltò fuori una spessie di peste magica e la gente cominsiò a chiamare i dottori... drun? drud?

«Druidi?»

«Uh-uh. Cussì, prorpio, che i dottori ci erano i druidi, dice il nonno. Là, in te la Cornovallia tutti i minatori ci cominsiarono a tirarci le cuoia, cussì chiusero le miniere».

«Che tipo di pestilenza era?»

Gli scaramellai giù tutti i discorsi del nonno che mi ci ricordavo, e il porfessor ci si prende una grossa eccitasione e sbofonchia qualche cosa sulle emanassioni radioattive, da quel poco che si sono riussito a capire. Il Galbraith ci pareva che desse i numeri ancora più del solito.

«Mutazioni artificiali causate dalla radioattività!» mi spara fuori, mentre ci diventa tutto rosso sulle guanciotte. «Suo nonno è nato mutante! I geni e i cromosomi si sono ridisposti in un nuovo schema. Diamine, potreste essere tutti dei superuomini!»

«Nemanco per sonio», gli dico. «Noi siamo gli Hogben. E ci basta».

«Una dominante. Ovviamente, una dominante. Tutti quelli della sua famiglia erano... sì... peculiari?»

«Oh, adesso mi ci senta bene!» gli sbottai sul muso.

«Voglio dire, potete volare tutti?»

«Io non mi ci so ancora come farlo. Oddio, ma sì, credo che si sia tutti un po' strani, in un certo senso. Ma il nonno gli è furbo. Ci ha sempre inseniato a non esibirci».

«Camuffamento protettivo», mi tollie la parola di bocca il Galbraith. «Sommerse in una rigida cultura sociale le variazioni dalla norma vengono più facilmente mascherate. In una cultura moderna e civilizzata spuntereste fuori come un pollice infetto. Ma qui, lontani da ogni centro importante, siete praticamente invisibili».

«Solo papà», gli preciso.

«Oh, Signore», rifà il sospiroso. «Sommergere, nascondere accuratamente questi vostri incredibili poteri naturali... Ma lo sapete quante cose avreste potuto fare?» E poi, zàcchete, eccolo che ci diventa ancora più eccitato, e non mi ci piace proprio gnente l'espressione delli suoi occhi.

«Cose meravigliose», ci ripete. «È come inciampare sulla lampada di Aladino».

«Ti dico di lassiarci soli», gli replicò, «tu e la tua commissione del cavolo!»

«Diménticati della commissione. Ho deciso di trattare la questione privatamente, almeno per un po'. Sempre che cooperiate. Che mi aiutiate, voglio dire. Lo farete?»

«Ma nianca del tutto», ci sbraito.

«Allora porterò qui la commissione da New York», lui ci minassia, con voce trionfante.

Ci rimugino su.

«Oh, be'», ci dico alla fine, «cosa l'è che ci devo fare, allora?»

«Non lo so ancora», sbotta, ancora tutto pieno di eccitassione. «La mia mente non ha ancora afferrato del tutto le possibilità».

Ma la era lì che ci si preparava ad afferarle, o cavoli se non lo capivo! Io ce la conosco quell'espressione da volpe!

C'ero lì, di fianco alla finestra, sbirsiando fuori, che, di botto, mi ci vien l'idea. Già ce lo sapevo che non sarebbe stata una gran furbissia a fidarsi del porfessor, in ogni caso. Cussi, mi ci vengo dapresso al marchingegno del fucile e mi ci metto a fare qualche piccola modificassione...

Io ce lo sapevo cosa ci dovevo fare, ma se il Galbraith mi avessimo domandato porqué ci piegavo questo filo qua e quell'altro filo là, non ci avrei saputo dirlielo. Io non ci ho nissuma educassione sientifica, capite. Solo che adesso sapevo che il marchingegno ci avrebbe fatto quello che io volessi.

Il porfessor si era messo a scribacchiare altri appunti in quel suo libretto. Ora alsa la testa e mi vede.

«Cosa stai facendo?» ci vuol subito sapere.

«Oh, non mi ci pareva a posto», gli spiego. «Tu ci debbi avere stortato le batterie... Provalo adesso».

«Qua dentro?» lui fa, tutto confusionato. «Non voglio pagare il conto per i danni. Deve venir provato in condizioni di sicurezza».

«Ce lo vedi il gallo segnavento là fuori sul tetto?» Gli caccio il dito di fianco al naso. «Non ci farai nissun danno se miri a quel gallo. Puoi startene qui in piedi difianco alla finestra e lo provi».

«Non... non sarà pericoloso?» Ma sì, che lo capivo benissimo che lui ci aveva un fottìo di vollia di provare il marchingegno. Gli dico che non ci avrebbe accoppato nissuno, e lui caccia un sospiro lungo di qui a lì, va alla finestra e ci si mette col guanciotto contro il calsio del marchingegno.

Io mi ci sto tutto tutt'indietro. Non ci vollio che il sieriffo mi veda, e già mi ero accorto che ci stava giù in strada su una panca, là fuori del negossio di mangimi, dall'altra parte della strada.

Successe prorpio quello che avevo pensato. Il Galbraith ti tira il grilletto, mirandoci al gallo banderuola sul tetto, e anelli di luce ci cominciano a ussir fuori de la bocca del fucile. C'è un botto tremendo. Il Galbraith ti finisse stramassato di schiena sul pavimento, e c'è un fracasso da per tutto che ti spaca i timpani. In città tutta la gente incominsia a urlare.

Io mi ci dico che saressi assai bene che mi ci diventassi invisibile per un po', e cussi mi ci divento.

Il Gaibraith ci stava ancora esaminando il marchingegno del fucile quando il sieriffo Abernathy piomba dentro. Il sieriffo l'è un po' matto, oltreché un duro. Ci aveva la pistola in tel pugno, e anche le manette, e ti scarica di brutto una valanga di parolasse sul porfessor:

«L'ho vista!» urla. «Voi gente di città credete di poter fare i comodi vostri quaggiù! Be', non potete!»

«Saunk!» grida il Gaibraith, e ci strabussa gli occhi tutto intorno. Ma l'è chiaro che non poteva vedermi.

Poi, ti ci scominsiano una discussione che ti dico io... Il sieriffo Abernathy ci aveva visto il Gaibraith che sparava col marchingegno del fucile, e non è un siocco. Acchiappa il Gaibraith e lo trassina giù in strada, e io dietro col mio passo felpato. La gente correva di qua e di là come ci avesse dato di volta il cervello. Quasi tutti ti ci tenessino le mani serrate sulla faccia.

Il porfessor continua a tabaccare che lui non ci capisse niente.

«L'ho vista!» ci sbraita ancora l'Abernathy. «Ha preso la mira con quel suo coso fuori della finestra e subito dopo tutti in città si sono trovati col mal di denti! Provi a dirmi che non capisce!»

Il sieriffo è svellio. Lui ci conosse noi Hogben da lunga pessa e cussi non si meravillia quando vede capitare delle cose strane. E ci sapeva, in più, che il Gaibraith era un siensiato. Cussì, quando la gente ti vede il porfessor e capisse che è stato lui, ecco che ti fa una cagnara tremenda e subito vuole agguantare il Gaibraith e farlo a pessettini, ma l'Abernathy gli dà due sbraitate e lo porta via sensa nianche un sgraffio.

Io me ne vado a strassinar i piedi qua e là per le strade. Il pastore l'è fuori e ci sta dando un'occhiata sbalordita alle finestre della chiesa. Lui non ci capisse porqué le finestre, di vetro colorato, ci son diventate calde roventi. Io ci avrei potuto spiegarlo. C'è oro in quei vetri; ce lo mischiano dentro per colorarli di rosso.

Alla fine, ci vado giù alla prigione. Sto ancora invisibile. Cussì ci ascolto il Gaibraith che ti protesta col sieriffo.

«È stato Saunk Hogben», ci grida il porfessor. «Le ho detto che è stato lui a modificare quel proiettore!»

«Io l'ho vista», gli sbraita l'Abernathy. «È stato lei. Ahi!» Lo vedo che ci si tiene la massiella con la mano. «È farà meglio a fermarlo in fretta! Quella folla là fuori ha intenzioni serie. Metà della gente in città ha il mal di denti».

Io c'indovino che metà della gente in città ci ha otturassioni d'oro in te la bocca.

Poi il Gaibraith ci spara fuori qualchecosa che a me non mi ci sorprende prorpio gnente. Ci dice, il Gaibraith: «Farò venire una commissione da New York. Avevo già intenzione di telefonare stasera stessa alla fondazione. Loro garantiranno per me».

Cussi, aveva sempre avuto l'intensione d'imbroliarci, quel birichino lì. Sì, ci aveva sul serio quell'intensione.

«O lei guarisce subito il mio mal di denti... e quello di tutti gli altri... altrimenti apro la porta e lascio entrare la folla per farla linciare!» ci ulula il sieriffo. Poi ci va nall'altra stansa per schiaffarsi un sacchetto di ghiaccio sulla ganassa.

Io ci torno indietro nel corridoio, poi ci faccio un sacco di rumore porqué il Galbraith el capissa che sto arrivando. Mi ci sgnacca sul muso un fracco d'insolense, ma io ci faccio aposta lo stupido e sto lì a bocca averta.

Quando la pianta, che non ce la fa più a respirare, ci dico: «Sì, capisso che ci devo aver fatto uno sballio. Ma posso giustarlo».

«L'ha già aggiustato abbastanza!» Strepita. «Ma... aspetti un momento. Cosa ha detto. Può rimediare a questa... cos'è

«Ci ho dato un'occhiata a quel marchingegno di fucile», ci dico. «Credo di aver capito indove ci ho sbaliato. Adesso l'è sintonisato sull'oro, e tutto l'oro in città ci sta sparando fuori raggi di calore, roba cussì, insomma...»

«Radiazione selettiva indotta», ci sbatacchia fuori il Galbraith, sensa nianche batter cilio. «Ascolti. Quella folla là fuori... Hanno mai linciato qualcuno, qui in città?»

«Oh, qua ci fanno a pessettini soltanto uno o due bischeri all'anno», gli ci spiego. «E ce ne abbiamo già avuti due quest'anno, perciò la quota l'è ormai coverta. Io ti ci portaria volentieri a casa nostra, per prudensa. Li è facile nascondarti ben bene, che nissun...»

«Farà meglio a far qualcosa, e subito!» mi urla. «Altrimenti farò arrivare quella commissione da New York. Non le piacerebbe, vero?»

Che io ci caschi morto qui, subito, se ci ho mai visto un altro tissio bravo a dir bugie come questo qui, con la sua bella faccia di bronso.

«L'è una baseccola», gli ci dico. «Io ti ci posso sistemar il marchingegno cussi che il raggio si spegne subito. Solo che non ci volìio che la gente ci colleghi noi Hogben con tutto questo putiferio. Noi ci piace viver tranquilli. Oh, mi ci ascolti, supponga che io mi ci vadi all'albergo e ci rimetta in sesto il marchingegno, tu ci devi solo radunar tutti quelli col mal di denti e schiacciare il grilletto, d'accordo?»

«Ma io... sì... ma...»

Ci aveva una paura boia di altre complicassioni. Ma la gente, di fuori, ci urlava come tanti disperati, cussi ci si convince. E io vado via, ma poi mi ci torno subito, invisibile, per ascoltare se il Galbraith ci dice tutto al sieriffo.

Tutto l'è sistemato in un batti baleno. Tutti quelli col mal di denti si saressino andati al Municipio, ad aspettare. E poi, l'Abernathy ci portassi là il porfessor col marchingegno del fucile, e ci avrebbero fatto la prova.

«Farà smettere il mal di denti?» insiste il sieriffo. «Di sicuro?»

«Sono... sì, sono del tutto sicuro di sì».

L'Abernathy ci sente quell'esitassione.

«Prima farà meglio a provarlo su di me. Solo per accertarsene. Non mi fido di lei».

Ci par proprio che nissuno ci si fidi di nissuno.

 

E io ci ritorno all'albergo e ci rimedio la modificassione al marchingegno. E poi mi ci ritrovo nei guai. La mia invisibilità si sta scolando via. È questa la disgrassia, quando si è solo ragassini. Quando ci avrò qualche centinaio di anni, ci resterò invisibile per tutto il tempo che vollio. Ma adesso, non ci ho ancora un buon controllo della cosà. Il fatto era che adesso, avevo bisogno di aiuto, siccome ci avevo qualcosa da fare con urgensa, e che non ci potevo fare con la gente che guardava.

Vado sul tetto e ci chiamo il piccolo Sam. Quando mi sono sintonisato sulla sua testa, lui mi ci passa la comunicassione a papà e al sio Les. Dopo un poco, il sio Les arriva volando giù dal cielo, molto appesantito porqué ci portava papà a cavallo della schiena. Papà tirava giù i santi e le madonne porqué un falco gli ci aveva dato la caccia.

«Comunque, nissuno ci ha visti», dice il sio Les. «Almeno, credo».

«La gente ci ha avuto dei guai, qui in città», ci spiego subito. «Mi ci dovete aiutare. Quel porfessor là vuole far venire la commissione a studiarci, anche se fa finta del contrario».

«E allora, ci siamo tutti in braghe di tela», fa il papà. «Non possiamo ammassare il porfessor. Il nonno ci ha detto di non farlo».

Cussi, gli dico la mia idea. Papà, invisibile che l'era, poteva farlo facile. Poi ci facciamo un po' di spassio nel tetto così da guardarci attraverso, e io ci guardo giù nella stansa del Galbraith.

Siamo giusto in tempo. Il sieriffo se ne stava là, con la pistola in tel pugno, e aspettava, e il porfessor, tutto sbiancato da l'emossione, stava puntando il marchingegno del fucile contro l'Albernathy. E tutti ci va lissio come l'olio. Il Galbraith tira il grilletto, spara fuori l'anello di luce rossa, e basta là. Salvo che il sieriffo spalanca la bocca e inghiottisce.

«Lei non fingeva! Il mal di denti mi è sparito!»

Il Galbraith l'era tutto sudato, ma ci fa l'indifferente: «Certo che funziona», ci dichiara. «È naturale. Gliel'avevo detto...»

«Su, venga al Municipio, adesso. Tutti la stanno aspettando. Sarà meglio che faccia sparire il mal di denti a tutti, altrimenti sarà peggio per lei».

E ci vanno in fretta e furia. E il papà, invisibile, dietro. Il sio Les mi chiappa in su la schiena e ci andiamo dietro anche noi in volo, bassi sopra i tetti, dove nessun furbastro ci può vedere. Dopo un po', eccoci qua appollaiati a una finestra del Municipio, pronti per lo spettacolo.

Non ci avevo più visto tanta gente piena di sofferensa dai tempi della grande pestilensa a Londra. La sala ci era strabocchevole, e tutti ci avevano un mal di denti boia e ci si lamentavano e urlavano. L'Abernathy entrò col porfessor, che ci portava il marchingegno del fucile. A quella vista si levò tutto un urlare.

Il Galbraith ci sistema il marchingegno sul palco e lo punta contro il pubblico, mentre il sieriffo ti ci sfodera di nuovo la pistola e blatera un discorso e ci ordina a tutti di chiudere il becco, porqué tutti ci saressino liberati tosto dal mal di denti.

Me, com'è naturale, non ci riussivo a vedere il papà, ma sapevo che l'era lì, sul palco. E qualcosa di strano, prorpio, ci stava succedendo al marchingegno del fucile. Nessuno ci fa attensione, salvo me, che ci stavo con gli occhi addosso apposta. Papà, che l'era più invisibile che mai, ci stava facendo qualche altra modificassione. Gli avevo detto come, ma lui ci sapeva fare altrettanto di me. E cussì, molto presto quel fucile là l'era sistemato prorpio come ci volessimo noi.

Quel che ci capitò subito dopo l'è stato, come ci dicono, traumatisante. Il Galbraith punta il congegno e schiaccia il grilletto, e zàcchete, che ti schissano fuori gli anelli di luce, gialli, stavolta. Io ci avevo detto al papà che ci regolasse la portata, da non infastidirci nissuno fuori del Municipio. Ma dentro...

Oh, ma di certo che si sistemò tutto il loro mal di denti. A nissuno può far male un'otturassione d'oro, se non c'è più l'otturassione.

Adesso, il marchingegno del fucile l'era regolato per funsionare su qualunque cosa che non cresseva, che non ti ci è viva, insomma. Papà aveva regolato la portata prorpio giusta. I sedili ci erano spariti di sotto le chiappe al pubblico tutto a un tratto, con una buona porsione del lampadario. La gente, cussi tutta stretta insieme, se la beccò giusta. Era scomparso anche l'occhio di vetro di Pegleg Jaffe. Quelli che ci avevano i denti falsi, li erano spariti secchi. E tutti ci ricevettero anche una piccola rapata ai capelli.

Inoltre, tutti i presenti si persero i vestiti. Le scarpe non crescono, e nianche le mudande o le camissie o i vestiti. In un battibaleno, tutti lì nella sala ci si ritrovano nudi come mamma li ha fatti. Ma, orpo, si erano pur liberati del mal di denti, no?

Noi ci tornassimo a casa un'ora più tardi, tutti ma sensa il sio Les, quando la porta ti ci spalanca di botto e entra il sio Les con il porfessor che ti viene avanti barcollando. Il Galbraith era ridotto uno strassio. Si slomba su una sedia che nianche quasi ti respira, e continua a tirarci occhiate alla porta con grossissima preoccupassione.

«Ci è capitata una cosa strana», spiega il sio Les. «Ci volavo fuori della città, quando ti ci vedo il porfessor che scapapva davanti a un fracco di gente, qualcuno intabarrato con dei lensuoli. Cussi, lo prendo su. E l'ho portato qui, come ci voleva lui». Il sio Les mi strissa l'occhietto.

«Ooooooh!» ci fa il Galbraith. «Aaaah! Stanno arrivando?»

Mamma ci va alla porta.

«C'è un fracco di torce che ci vengon su per la montagna», dice mamma. «Pare prorpio una brutta situassione».

Il porfessor mi guarda furioso.

«Avete detto che potevate nascondermi! Be', ora fatelo! Questa è colpa vostra!»

«Uffa», ci sbotto.

«O mi nascondete, o altrimenti io...» urla il Galbraith, «... io chiamerò la commissione!»

«Senti», ci dico, «se ti nascondiamo ben bene, al sicuro, ci prometti di dimenticarti della commissione e ci lassi soli e in pace?»

Il porfessor promette. «Aspetta un istante», ci dico, e vado su nell'attico a trovare il nonno.

L'era svellio.

«Ti va ben, nonno?»

Lui ci ascolta il piccolo Sam per un istante.

«Quel mascalzone vuol corbellarci anche adesso», mi ci dice quasi subito. «Ha tutta l'intenzione di portar qui lo stesso quella sua commissione di fetenti, fregandosene in pieno d'ogni sua promessa».

«E allora, lo nascondiamo l'istesso?»

«Sì», fa il nonno. «Gli Hogben han dato la loro parola — non ci devono essere altre uccisioni. E nascondere un fuggitivo dai suoi inseguitori, certo una cattiva azion non è».

Forse, mi ci fece l'occhietto. È difficile dirlo, col nonno. Mi ci torno giù per la scala. Il Galbraith è alla porta, che ci guarda pallido come un lensuolo le torce che ci si arrampicano su sul fianco della montagna.

Mi agguanta.

«Saunk! Se non mi nascondete...»

«Ora ti ci nascondo», lo calmo. «Su, vieni».

Così, ce lo portiamo giù in cantina...

Quando ci arriva quella folla di disgrassiati tutti rabbiosi, il sieriffo Abernathy in testa, noi ci facciamo i tonti. Ci lassiamo perquisire la casa. Il piccolo Sam e il nonno ci diventano invisibili per un poco, cussi nissun ci si accorge di loro. E naturalmente la gente imbestiata non trova nianche un capello del Galbraith. Ce l'avevamo nascosto prorpio bene, come promesso.

Questo ci è capitato qualche anno fa. Il porfessor ci sta prorpio bene e ingrassa. Ma non è lui che ci studia noi. Qualche volta ci tiriamo fuori la bottillia indove lo teniamo, e ci siamo noi a studiare lui.

È anche una bottilietta cussi piccola...

 

Il tuono e le rose

Thunder and Roses

Theodore Sturgeon

Astounding Science Fiction, novembre

 

Il secondo contributo di Ted Sturgeon, al meglio, del 1947, è una vigorosa dichiarazione in favore del buon senso in un mondo impazzito. Scritto soltanto pochi mesi dopo Hiroshima, si erge come una delle più grandi storie ammonitrici di tutti i tempi, affermando che perfino nel peggiore dei momenti gli uomini e le donne hanno pur sempre l'obbligo di compiere una scelta.

Sei d'accordo, Isaac?

 

(In tutto e per tutto, Marty. Dal 1947 è passata un'intera generazione e la catastrofe nucleare non c'è ancora stata, soprattutto perché la gente ha fatto delle scelte [particolarmente durante la crisi dei missili di Cuba nel 1962] e, appunto, ha scelto la vita. Oggi, dobbiamo continuare in questa scelta. Sopra ogni altra considerazione, ben oltre gli obiettivi a breve termine, dobbiamo compiere quella scelta di vita più importante d'ogni altra, a lungo termine.

Ma facciamo il punto. Delle quattordici storie di questo volume, undici erano di Astounding e quattro trattano della guerra nucleare e delle sue conseguenze. Vale a dire, quattro fra le storie che abbiamo giudicato fra le migliori dell'anno, e fra queste «Il tuono e le rose». Ma moltissime altre storie pubblicate in quell'anno avevano a che fare con l'incubo nucleare, e chissà quante altre storie furono scritte su questo argomento e mai pubblicate. Fu un terrore dominante negli anni subito dopo Hiroshima; ed è soltanto l'abitudine ormai incallita che ha impedito che il terrore aumentasse sempre più... perché il pericolo è sicuramente aumentato. - I.A.)

 

Quando Pete Mawser venne a sapere dello spettacolo, distolse lo sguardo dal tabellone dei comunicati al Quartier Generale, si toccò il mento prominente e decise di radersi. Fatto certamente strano, poiché lo spettacolo sarebbe stato trasmesso dal video e lui l'avrebbe visto nella sua caserma.

Disponeva di un'ora e mezza per farlo. Gli diede una gradevole sensazione, avere di nuovo uno scopo - anche se consisteva nel radersi prima delle otto. Alle otto di martedì, proprio come una volta. Tutti avevano l'abitudine di seguire quello spettacolo, il martedì sera. E la mattina del mercoledì tutti avevano l'abitudine di dire cose come: «Che ne dici di come ha cantato 'The Breeze and I' ieri sera?» «Ehi, hai sentito Starr ieri sera?»

Questo accadeva molto tempo fa, prima che tutta quella gente morisse, prima che il paese morisse. Starr Anthim, un'istituzione, come Crosby, la Duse, Jenny Lind, la Statua della Libertà.

(Ma Statua della Libertà era stata una delle prime a venir colpite, la sua bronzea bellezza volatilizzata in una nuvola radioattiva che ancora adesso veniva portata in giro da venti raminghi, sparpagliandosi su tutta la Terra...)

Pete Mawser grugnì e costrinse i suoi pensieri a mollar giù quei velenosi frammenti alla deriva d'una Statua della Libertà distrutta. L'odio veniva per primo, l'odio era ubiquitario, come il crescente bagliore azzurro sopra l'intera base.

Colpi irregolari di mitragliatrice in lontananza sulla destra... si fecero più vicini. Pete uscì in strada e si avviò verso un dieci ruote parcheggiato lì accanto. Un dieci ruote vi dava un sacco di riparo.

C'era un'ausiliaria seduta sulla bassa pedana.

Una figura tozza, tarchiata, comparve arretrando all'angolo dell'incrocio, più oltre. L'uomo imbracciava un fucile mitragliatore e lo faceva oscillare su un lato e poi sull'altro col lento ritmo d'una banderuola. Si avvicinò barcollando verso di loro, sembrava stesse cercando qualcosa con la bocca del suo fucile. Qualcuno sparò dall'alto d'un edificio, l'uomo si girò di scatto e fece partire una raffica all'impazzata in direzione dello sparo.

«È... cieco», disse Pete Mawser, e aggiunse: «Deve esserlo», guardando il volto sbrindellato dell'uomo.

Una sirena risuonò, acuta. Una jeep blindata irruppe nella strada, descrivendo una stretta curva. Il sordo ruggito d'una mitragliatrice calibro .50 mise fine in modo rapido e sconvolgente all'incidente.

«Povero ragazzo ammattito», commentò Pete a bassa voce. «È il quarto che ho visto oggi». Abbassò lo sguardo sulla donna. Stava sorridendo.

«Ehi!»

«Ciao, sergente». Doveva averlo già identificato prima, poiché non sollevò gli occhi, né la voce. «Cos'è successo?»

«Ma lei lo sa, cos'è successo. Qualcuno dei ragazzi finisce per stancarsi di non aver niente contro cui combattere e nessun posto dove scappare. Qualcosa non va?»

«No», replicò la donna. «Non intendevo dire... questo». Finalmente alzò gli occhi a guardarlo. «Volevo dire... tutto. Non riesco a capire... non so».

«Oh... Gesù, non è mica facile dimenticarlo. Siamo stati colpiti, è chiaro. Siamo stati colpiti dappertutto, e nello stesso tempo. Tutte le grandi città sono sparite. Ne abbiamo presi da entrambi i lati. E ne abbiamo presi troppi. L'aria diventa sempre più radioattiva. Finiremo tutti per...» Si controllò. Quella donna non lo sapeva. O se l'era scordato. Non c'era nessun posto dove fuggire e lei era fuggita dentro se stessa. Perché dirglielo? Perché dirle che tutti sarebbero morti? E perché dirle quell'altra cosa vergognosa... che non avevano scatenato nessuna rappresaglia?

Ma lei non l'ascoltava. Lo stava guardando. I suoi occhi non erano del tutto dritti. Con uno guardava i suoi, ma l'altro era un po' girato e sembrava fissargli la tempia. Gli stava sorridendo di nuovo. Quando la sua voce si affievolì e si spense, lei non lo sollecitò a continuare. Pete si allontanò lentamente. La donna non girò la testa ma continuò a fissare il punto in cui lui si era trovato, con un debole sorriso. Pete accelerò il passo. Avrebbe voluto correre.

(Per quanto tempo uno poteva resistere? Quando sei nell'esercito cercano di farti essere come tutti gli altri. Cosa si fa, quando tutti gli altri cedono?)

Cancellò dalla sua mente l'immagine di se stesso come l'ultimo uomo sano di mente, lì. Già altre volte aveva coltivato quell'immagine. Ma l'aveva sempre portato alla conclusione che sarebbe stato assai meglio essere uno dei primi ad ammattire. Ma lui non era ancora pronto per questo.

Poi, cancellò anche quest'ultimo pensiero. Tutte le volte che diceva a se stesso di non essere ancora pronto, qualcosa dentro di lui gli diceva: «E perché no?», e a quanto pareva lui non aveva mai la risposta pronta.

(Per quanto tempo uno poteva resistere?)

Salì i gradini del Quartier Generale. Entrò; non c'era nessuno al centralino. Non aveva importanza. I messaggi venivano portati dai ragazzi con la jeep o le motociclette. In quei giorni, li al comando nessuno insisteva perché si stesse sempre appiccicati al proprio posto di lavoro. Per ogni uomo alla guida d'una jeep o nelle squadre sangue-e-sudore, altri dieci seduti a non far niente dietro una scrivania avrebbero ceduto. Pete decise che l'indomani avrebbe prestato servizio per un po' in una delle squadre. Gli avrebbe fatto bene. Sperava soltanto che stavolta l'aiutante di stato maggiore non scoppiasse in lacrime davanti a tutti. Finché non capitava qualcosa del genere si riusciva abbastanza bene a concentrare la propria attenzione sul manuale delle armi.

Nel corridoio della caserma s'imbatté in Sonny Weisefreund. Il volto giovane e rotondo del tecnico era più che mai ilare. Era nudo e raggiante, e aveva un asciugamano buttato sulla spalla.

«Ciao, Sonny. C'è acqua calda in abbondanza?»

«Perché no?» sogghignò Sonny. Pete sogghignò in risposta, imprecando fra sé. Possibile che nessuno riuscisse a dire una cosa qualunque, su un argomento qualsiasi, senza quei costanti accenni a... Ma certo che c'era acqua calda. La caserma del Quartier Generale aveva acqua calda per trecento uomini. Ne rimanevano tre dozzine. Uomini morti, uomini andati sulle montagne, uomini chiusi a chiave cosicché non...

«Stasera c'è uno spettacolo con Starr Anthim».

«Ah, già. Il martedì sera. Non sei divertente, Pete. Non sai che c'è una guerra...»

«Non sto scherzando», Pete si sffrettò a interromperlo. «Lei e qui... proprio qui, alla base...»

Il volto di Sonny sprizzò gioia da tutti i pori. «Gesù!» Tirò giù con mossa istintiva l'asciugamano dalla spalla e se l'allacciò alla vita. «Starr Anthim... qui! Dove daranno lo spettacolo?»

«Al Quartier Generale... lo stato maggiore, immagino. Al video. Sai com'è con le riunioni in pubblico...» Sì, appunto, pensò. Molto meglio così. Metti su uno spettacolo dal vivo, e qualche militare ormai a pezzi sarebbe crollato del tutto durante uno dei suoi numeri. Lui stesso, lo sentiva, sarebbe ammattito, là davanti a lei... al punto da far qualcosa di osceno o di orribile, di fronte a tutti. E ce ne sarebbero stati centocinquanta e magari di più che si sarebbero inferociti come belve perché qualcuno aveva osato guastare uno spettacolo di Starr Anthim. E Starr avrebbe avuto un piccolo, splendido massacro da rievocare, nel suo libro di memorie.

«Come mai è capitata qui da noi, Pete»

«È arrivata sfruttando l'ultimo sospiro d'un elicottero della Marina in avaria».

«Sì, ma perché?»

«E chi lo sa? A caval donato non si guarda in bocca».

Andò ai bagni, sorridendo e felice di riuscire ancora a farlo. Si spogliò, ripiegando con cura i suoi indumenti sopra la panca. Accanto a una parete c'erano l'involucro d'una saponetta e un tubetto di dentifricio vuoti. Li raccolse e li ficcò dentro alla pattumiera automatica. Raccolse lo straccio buttato accanto al divisorio e asciugò il pavimento la dove Sonny aveva schizzato acqua e sapone, dopo essersi fatto la barba. Sì, bisognava tener tutto pulito e in ordine. Si sarebbe fatto premura di dir qualcosa in giro se si fosse trattato di qualcun altro, ma Sonny non stava cedendo. Sonny era sempre stato così. Guarda là: aveva lasciato di nuovo fuori il suo rasoio.

Pete cominciò la sua doccia, regolando con cura la valvola fino a quando la pressione e la temperatura non furono esattamente come lui le voleva. No, non intendeva affatto affrettarsi. C'erano tante cose da vedere, ascoltare e sentire. L'impatto dell'acqua sulla sua pelle, l'odore del sapone, la consapevolezza della luce e del calore, la stessa sensazione del peso del proprio corpo sulle piante dei piedi... vagamente si chiese in qual modo il lento aumento della radioattività dell'aria, man mano l'azoto si trasformava in carbonio 14, avrebbe esercitato la sua influenza su di lui, se si fosse mantenuto in buona salute sotto ogni altro aspetto. Cos'è che accade per prima cosa? Si diventa ciechi? O si soffre di mal di testa sempre più forte e continuo? Oppure si perde l'appetito? Oppure ci si sente stanchi, sempre più stanchi, per tutto il tempo?

Perché non andare a controllare sui libri?

D'altro canto, perché preoccuparsene? Soltanto una piccola percentuale degli uomini sarebbero morti di avvelenamento radioattivo. C'erano troppe altre cose che uccidevano più in fretta, il che, con tutta probabilità, era meglio. Quel rasoio, per esempio: giaceva lì, luccicante, curvo e pulito nel riflesso dorato del sole. Era stato usato dal padre e dal nonno di Sonny, o per lo meno era quanto lui diceva, ed era il suo orgoglio e la sua gioia.

Pete voltò le spalle al rasoio e s'insaponò sotto le ascelle, concentrandosi nella frizzante sensazione delle bollicine che scoppiavano. E nel bel mezzo del rinnovato disgusto per se stesso, perché pensava così spesso alla morte, fu colpito da una verità sbalorditiva. Dopotutto, lui non pensava a quelle cose perché avesse una fantasia morbosa! Era la familiarità stessa delle cose a causargli pensieri di morte. La scelta era fra «Non lo farò mai più» e «Questa è una delle ultime volte che lo farò». Ci si potrebbe dedicare completamente ad agire sempre in maniera diversa, pensò follemente. Ora avrebbe potuto strisciare sul pavimento, e la volta seguente camminarci sopra a testa in giù. Avrebbe potuto saltare la cena e fare invece uno spuntino alle due del mattino, e mangiare erba a colazione.

Già. Ma bisognava pur respirare. Il cuore doveva battere. Si continuava, per forza, a sudare e a rabbrividire nello stesso modo di sempre. A queste cose non si sarebbe mai riusciti a sfuggire. Erano lì, per farvi ricordare. Il vostro cuore, invece del solito bum-bum, bum-bum, vi cominciava a ripetere uno-meno, uno-meno, sempre più forte, sempre più insistente, fino a urlarvelo nelle orecchie, e a questo punto, avreste dovuto farlo smettere.

Quel rasoio era magnificamente affilato.

Il vostro respiro avrebbe continuato come prima. Voi, sì, avreste potuto scivolare obliquamente attraverso la porta, varcare a ritroso quella successiva e quell'altra ancora, e immaginare un modo totalmente diverso per superare le ultime della serie, ma il vostro respiro avrebbe continuato a scivolare dentro e fuori dalle vostre narici, come un rasoio che passasse avanti e indietro sui baffi, producendo un suono simile a quello d'una lama che venisse affilata sulla coramella.

Sonny entrò. Pete s'insaponò i capelli. Sonny prese su il rasoio e rimase lì a fissarlo. Pete l'osservò, il sapone gli colò sugli occhi facendolo imprecare. Sonny sussultò.

«Cosa stai guardando, Sonny? Non l'hai mai visto prima?»

«Oh, certo. Certo. Era soltanto che...» Chiuse il rasoio, lo riaprì. Fece balenare la luce sulla lama, tornò a chiuderlo. «Sono stanco di usare questo rasoio. Pete, voglio sbarazzarmene. Lo vuoi tu?»

Volerlo? Nell'armadietto ai piedi del letto, forse. Sotto il cuscino. «Grazie, no, Sonny. Non potrei usarlo».

«Mi piacciono i rasoi di sicurezza», borbottò Sonny. «Quelli elettrici ancora di più. Cosa ne facciamo, di questo?»

«Lo buttiamo nel... no». Pete si raffigurò quel rasoio che roteava nell'aria, semiaperto, che luccicava per un breve istante nelle fauci del prendi-tutto. «Buttalo fuori dalla...»

No. Ricurvo, in mezzo all'erba alta. Lui avrebbe potuto volerlo, quella notte. Avrebbe potuto mettersi a strisciare nell'erba alta, alla luce della luna, per cercarlo. Avrebbe potuto trovarlo...

«Credo che lo spaccherò, allora».

«No», disse Pete. «I pezzi...» Piccoli pezzi taglienti. Frammenti dal concavo orlo affilato. «Penserò a qualcosa. Aspetta, mentre mi vesto».

Finì in fretta di lavarsi, si asciugò, mentre Sonny se ne stava sempre lì fermo, a guardare il rasoio. Adesso era un'unica lama, ma se lo rompevate ci sarebbero stati frammenti e schegge scintillanti, ancora affilati come rasoi. Avreste potuto schiacciare il suo orlo contro una ruota smerigliata, e frantumarlo. Ma qualcuno l'avrebbe trovato e l'avrebbe affilato di nuovo, poiché era pur sempre un rasoio, un bel rasoio di acciaio, un rasoio in grado di affettare, e zic e... «Lo so. Il laboratorio. Ce ne sbarazzeremo», finì Pete, con sicurezza.

Si vestì, e insieme andarono nell'ala occupata dal laboratorio. C'era molto silenzio, là. Le loro voci echeggiarono tra le pareti.

«Uno dei forni», disse Pete, allungando la mano verso il rasoio.

«I forni per il pane? Sei matto?»

Pete ridacchiò: «Non conosci questo posto, vero? Come ogni altra cosa, qui alla base, qui veniva fatto molto di più di quanto la gente sapesse. Continuavano a chiamarlo il laboratorio del pane. Be', si, era il centro generale per la ricerca di nuovi tipi di farina più nutrienti. Ma ci sono un sacco di altre cose qua dentro. Abbiamo sperimentato un bel po' di utensili, come un nuovo tipo di pelabarbabietole e un mucchio di altri aggeggi. Qui dentro c'è una fornace elettrica che...» Apri una porta.

Attraversarono una stanza lunga e silenziosa ingombra d'ogni genere di attrezzature, fino a un complesso termico. «Qui possiamo fare tutto quello che vogliamo, dal temprare il vetro alla vetrinatura delle ceramiche, fino a trovare il punto di fusione dell'acciaio per padelle». Fece scattare un interruttore, a scopo dimostrativo. Si accese una piccola spia luminosa. Aprì una porticina massiccia e infilò dentro il rasoio.

«Mandagli il bacio d'addio. Fra un quarto d'ora sarà una pozzanghera».

«Voglio proprio vedere», disse Sonny. «Intanto, posso dare un'occhiata in giro, fino a quando non è cotto del tutto?»

«Perché no?»

(Tutti, qui, diciamo «Perché no?»)

Si misero a girare per i laboratori. Erano meravigliosamente attrezzati e troppo silenziosi. A un certo punto passarono accanto a un maggiore che era chino sopra un complicato apparato elettronico su uno dei banchi di lavoro. Stava osservando una piccola e guizzante luce ambrata e non rispose al loro saluto. Lo superarono in punta di piedi, provando soggezione davanti al suo impegno, e anche invidia. Videro i modelli delle impastatrici automatiche, i vitaminizzatori, i termostati, i timer e i telecomandi.

«Cosa c'è più avanti?»

«Non lo so. Ho superato il confine del mio territorio. Non credo che sia rimasto nessun addetto a questa sezione. Per la maggior parte erano teorici e tecnici elettronici. L'unica cosa che so di loro è che, tutte le volte che ci serviva qualcosa, utensili, contatori, ogni tipo di attrezzatura insomma, loro ce l'avevano, e anche qualcosa di meglio, e se uno di noi era davvero acuto e aveva all'improvviso un'idea nuova e sorprendente, loro l'avevano già realizzata, buttando poi tutto nella spazzatura, un mese prima. Ehi!»

Sonny seguì con lo sguardo il dito puntato di Pete: «Cosa c'è?»

«Quella sezione della parete. È allentata e... be', vediamo».

Spinse la sezione di parete che era leggermente fuori squadra. Dietro ad essa comparve uno spazio buio.

«Cosa c'è là dentro?»

«Niente, oppure si tratta di qualche lavoro segreto, magari una ricerca personale... Quei tizi facevano tutto quello che volevano».

Sonny commentò con una punta d'ironia che non gli era affatto abituale: «Ma non è forse questo il mestiere dei teorici dell'esercito?

Sbirciarono cauti, poi entrarono.

«Cos'è mai... ehi, la porta!»

Pete l'aveva lasciata andare. La porta ruotò rapida e silenziosa e si chiuse. Il leggerissimo scatto della serratura fu accompagnato dallo sfolgorare d'una vivida illuminazione interna.

La stanza era piccola e senza finestre. Conteneva macchinari — batterie di accumulatori, una dinamo, due piccole centrali a gas, ad avviamento automatico, e un Diesel completo di batteria d'avviamento, compressori e volano. Su un angolo c'era un pannello, irto d'interruttori, i bulloni saldati così da rendere impossibile svitarli. Al centro sporgeva una leva dal manico rosso. Non c'era nessuna scritta.

Fissarono ambedue per un po' tutta quell'apparecchiatura, senza spiccicar parola. Infine, Sonny commentò: «Qualcuno voleva esser dannatamente sicuro di aver tutta l'energia sufficiente per... per chissà che cosa».

«Già, mi piacerebbe tanto sapere...» Pete si avvicinò al pennello irto d'interruttori. Fissò la leva senza toccarla. Era bloccata da un filo metallico. Dal filo pendeva un'etichetta ripiegata in due. Pete l'aprì con cautela e lesse: «Può essere usata soltanto su espresso ordine dell'ufficiale comandante».

«Dagli uno strattone e vedi cosa succede».

Alle loro spalle qualcosa fece clic. Si girarono di scatto. «Cos'è stato?»

«Mi sembra che sia venuto da quel congegno accanto alla porta».

Si avvicinarono con cautela. C'era uno stretto cilindro collegato, tramite una molla, a una sbarra incernierata in modo da cader giù, di traverso al lato interno della porta segreta: la sbarra era appunto caduta giù, inserendosi su due robusti ganci metallici.

Fece di nuovo clic. «Un Geiger», commentò Pete disgustato.

«Perché mai», rifletté Sonny, «avrebbero dovuto progettare una porta destinata a restar chiusa in permanenza, a meno che la radioattività generale non superi una certa intensità? È così che funziona. Non vedi i circuiti. Quello è l'interruttore di sovraccarico... e questo...»

«C'è anche una serratura manuale», gli fece notare Pete. Il Geiger fece di nuovo clic. «Usciamo da qui. In questi giorni mi sembra di avere uno di quegli affari incorporato nella testa».

La porta non fece alcuna difficoltà per aprirsi. Uscirono, chiudendosela alle spalle. Il buco della serratura era abilmente dissimulato in una commessura fra due pannelli.

Tornarono in silenzio attraverso i laboratori del quartier generale. Quel po' di eccitazione che li aveva animati per aver violato un segreto se n'era andata e, almeno per Pete Mawser, erano ritornati l'odio e la vergogna. Alcune settimane prima quella base faceva parte del più bel paese della Terra. Là dentro c'erano molti lavori segreti, e molti altri che riguardavano la ricerca pura, non applicata, e sarebbero stati d'intralcio in qualunque altro posto, salvo che in quella tranquilla desolazione.

Il sudore gl'imperlava la fronte. Non avevano risposto all'aggressione dei loro assassini! Era ben noto che c'erano siti di lancio sparpagliati dappertutto nel paese, in nascondigli segreti, lontani da ogni base militare e dalle città assassinate. Perché dovevano restarsene lì, inerti, ad aspettare la lenta morte, soltanto per consentire al nemico — «nemici» era più probabile — d'impadronirsi del continente, una volta che il veleno radioattivo si fosse dissolto?

Sorrise cupo. C'era una piccola consolazione. Avevano colpito troppo duramente: questa era una certezza. Con tutta probabilità ognuno degli aggressori aveva sottovalutato ciò che gli altri avrebbero lanciato. Il risultato... una trasformazione sempre più diffusa dell'azoto nel micidiale carbonio 14. Gli effetti non si sarebbero limitati a quel solo continente. Quali orribili effetti a lunga scadenza quella radioattività indotta avrebbe avuto sui nemici d'oltremare era qualcosa che nessuno, fra quanti oggi erano ancora in vita, potevano sapere.

Tornato alla fornace, Pete diede un'occhiata agli indici, poi face scattare la serratura dello sportello. La spia luminosa si spense e lo sportello si aprì. Ambedue ammiccarono e arretrarono con un istintivo sussulto davanti all'infuocata vampa che irruppe dall'interno, poi si chinarono a guardare. Il rasoio non c'era più. Una pozza brillante giaceva sul fondo della camera interna.

«Non ne rimane molto. Per la maggior parte si è ossidato e vaporizzato», grugnì Pete.

Restarono lì, immobili, per un po', i volti illuminati da quella piccola, fulgida rovina. Più tardi, quando tornarono in caserma, Sonny ruppe il suo lungo silenzio con un sospiro. «Sono contento che l'abbiamo fatto, Pete. Sì, sono tremendamente contento».

 

A un quarto alle otto erano in attesa, in caserma, davanti al video. Tutti gli uomini, salvo Pete, Sonny e un caporale corpulento, dai capelli irti, chiamato Bonze, avevano scelto di vedersi lo spettacolo sul grande schermo nella sala della mensa. Là la ricezione era migliore, ovviamente, ma come diceva Bonze, «Non si riesce ad avvicinarsi abbastanza, in un posto grande come quello».

«Spero sia sempre la stessa», disse Sonny, parlando tra sé.

Perché mai avrebbe dovuto esserlo? pensò Pete, imbronciato, mentre accendeva l'apparecchio e osservava lo schermo che cominciava a illuminarsi. C'era sempre un gran numero di quei corpuscoli dorati che avevano impedito la ricezione durante le ultime due settimane. Perché mai qualcuno o qualcosa avrebbero dovuto essere gli stessi, ormai? Riuscì a reprimere l'improvvisa tentazione di fare a pezzi l'apparecchio prendendolo a calci.

Quello, e Starr Anthim, facevano parte di qualcosa che era morto. Il paese era morto — il vero paese, prospero, disordinato, ridanciano, arraffone, in crescita e in continuo mutamento, qua e là chiazzato dalla lebbra della povertà e dell'ingiustizia, ma sano a sufficienza da vincere ogni male. Si chiese se agli assassini sarebbe piaciuto. Sì, che venissero: sarebbero stati i benvenuti, adesso. Non c'era nessun luogo dove andare. Nessuno contro cui combattere. Adesso questo era vero per chiunque, sulla Terra.

«Tu speri che sia la stessa», bofonchiò Pete.

«Lo spettacolo, intendevo dire», replicò Sonny, pacato. «Mi piacerebbe starmene seduto qui a goderlo come... come...»

Oh, pensò Pete, come in una nebbia. Oh... quello. Un luogo dove andare, ecco cos'è, per qualche minuto. «Lo so», rispose. Ogni traccia di asprezza aveva lasciato la sua voce. Il ronzio dell'onda portante, nell'audio, si smorzò, quando giunse la modulazione. La luminosità sullo schermo turbinò e si stabilizzò in forma di diamante. Pete regolò la messa a fuoco, l'equilibrio cromatico, la luminosità. «Spegni le luci, Bonze. Voglio vedere soltanto Starr Anthim».

Era la stessa, a tutta prima. Starr Anthim non aveva usato le solite fanfare, dissolvenze, chiasso, tutte le coreografie dei suoi colleghi. Uno schermo nero e poi, clic, un bagliore dorato. Era tutto lì, a fuoco: terribilmente intenso, e non cambiò. Piuttosto, fu l'occhio a cambiare, per accettare la scena. Lei non si mosse, neppure per un breve istante, dopo essere comparsa: era là, un volto, un ritratto immobile e una gola bianca. I suoi occhi erano aperti ma addormentati. La sua faccia era viva e immobile.

Poi, in quegli occhi che sembravano verdi ma erano azzurri chiazzati d'oro, parve prender consistenza e forma una consapevolezza, e si svegliarono. Soltanto allora, ci si avvide che le labbra erano dischiuse. Qualcosa, negli occhi, aveva fatto sì che adesso si notassero le labbra, anche se niente, in realtà, si era ancora mosso. Ma infine, piegò lentamente la testa, cosicché alcune delle chiazze d'oro parvero restare imprigionate nelle sue sopracciglia. E quegli occhi, non stavano guardando il pubblico. Guardavano me, me, ME.

«Ciao... a te», disse. Era un sogno, coi denti leggermente irregolari d'una sorellina.

Bonze fu scosso da un tremito. La branda sulla quale si era disteso prese a cigolare e non smise più. Sonny si scostò, infastidito. Pete allungò la mano nell'oscurità e afferrò una gamba della branda. Il cigolio cessò.

«Posso cantarvi una canzone?» chiese Starr. Si udiva una musica assai fievole sullo sfondo. «È una vecchia canzone, una delle più belle. È una canzone semplice, ma profonda, che nasce da quella parte di uomini e donne che sono i veri rappresentati dell'umanità — quella parte che non contiene nessuna cupidigia, né odio o paura.. Questa canzone parla della gioia e di una sana energia vitale. È... la mia preferita. Non è anche la vostra?»

La musica crebbe di volume. Pete riconobbe subito le prime note dell'introduzione e imprecò in silenzio. Era sbagliato. Quella canzone non era per... Quella canzone era parte del...

Sonny sedeva, in estasi. Bonze giaceva tranquillo, adesso.

Starr Anthim cominciò a cantare. La sua voce era profonda e potente, ma morbida, con appena un tocco di vibrato alla fine di ogni frase. La canzone fluiva da lei senza nessuno sforzo avvertibile, pareva irradiarsi dal suo viso, dai suoi lunghi capelli, dai suoi occhi ampiamente spaziati. La sua voce, come il suo viso, era un nitido chiaroscuro, rotonda, azzurra e verde, ma per la maggior parte d'oro:

 

«Quando mi donasti il tuo cuore, mi donasti il mondo,

mi donasti la notte e il giorno,

il tuono, e le rose, e la morbida erba verdeggiante,

il mare, la sabbia e l'argilla cedevole e umida.

 

«Assaporai l'alba da una coppa dorata,

e il buio da una coppa d'argento,

il destriero che cavalcai era il selvaggio vento dell'ovest,

le mie canzoni erano i ruscelli e l'allodolar».

 

La musica spiraleggiava gioiosa verso l'alto per poi scivolar giù in un grido di rabbia fatto di none e seste mute; tornò a levarsi, squillò, s'interruppe, e la sua voce restò sola, e piena:

 

«Con un tuono annientai il male della terra,

con le rose feci trionfare la giustizia,

col mare lavai, con l'argilla costruii,

e il mondo ridivenne un luogo di luce!»

 

L'ultima nota lasciò un volto di nuovo composto, immobile: era un'altra volta dormiente e vivo insieme, mentre la musica si attenuava, svanendo nei luoghi in cui la musica riposa quando non si sente.

Starr sorrise.

«È così facile», disse. «Così semplice. Tutto ciò che c'è di fresco e di pulito nell'umanità si trova in questa canzone, e credo che sia tutto ciò che dev'essere per noi l'umanità». Si sporse in avanti. «Non lo capite?» Il sorriso svanì e fu sostituito da una cortese meraviglia. Un minuscolo solco comparve tra le sue sopracciglia; si ritrasse con un rapido gesto. «Pare che non riesca a parlarvi stasera», disse, e la sua voce s'era fatta piccina. «Voi odiate... odiate qualcosa».

L'odio aveva la forma d'un fungo mostruoso. L'odio era il casuale sfarfallio dei corpuscoli sullo schermo video.

«Cosa ci è successo?» proseguì Starr d'un tratto, in tono impersonale. «Anche questo è semplice. Non importa chi sia stato a farlo — e lo capite, questo? Non importa. Siamo stati attaccati. Siamo stati colpiti da oriente e da occidente. La maggior parte delle bombe erano atomiche — bombe esplosive e bombe a polvere radioattiva. Siamo stati colpiti all'incirca da cinquecentotrenta bombe, complessivamente, e questo ci ha ucciso».

Aspettò.

Sonny si picchiò il pungo sul palmo. Bonze giaceva immobile, gli occhi spalancati. Era calmo e silenzioso. Pete stringeva le mascelle fino a farsele dolere.

«Noi abbiamo più bombe di ambedue messi insieme. Noi le abbiamo. Ma noi non le useremo. Aspettate!» Sollevò d'un tratto le mani, come se potesse vedere in viso ciascun uomo. I tre, nella stanza, sentirono la tensione crescere.

«L'atmosfera è talmente satura di carbonio 14 che tutti noi, su questo emisfero, stiamo per morire. Non abbiate paura di dirlo. Non abbiate paura di pensarlo. È la verità, e bisogna guardarla in faccia. Man mano gli effetti della trasmutazione atomica si diffonderanno dalle rovine delle nostre città, l'aria diventerà sempre più radioattiva e allora dovremo morire. Fra qualche mese, un anno o giù di lì, gli effetti si faranno sentire, intensi, anche oltre oceano. Anche laggiù, la maggior parte della gente morirà. Nessuno riuscirà a sfuggire del tutto. E a loro accadrà una cosa assai peggiore di qualunque altra abbiano fatto a noi, poiché si scatenerà un'ondata di orrore e di follia quale da noi è impossibile. Noi moriremo, e basta. Loro vivranno e bruceranno e si ammaleranno, e i figli che avranno...» Scosse la testa, si morse il labbro inferiore. Lo sforzo che fece per recuperare il controllo di sé fu chiaramente visibile.

«Cinquecentotrenta bombe... non credo che i nostri due aggressori sapessero quant'era forte l'altro. C'era stata tanta segretezza...» La sua voce era triste. Diede una leggera scrollata di spalle. «Ci hanno ucciso, e rovinato se stessi. In quanto a noi... neanche noi siamo senza colpa. E non siamo neppure impotenti, impossibilitati a far qualcosa... non ancora. Ma ciò che dobbiamo fare è arduo. Dobbiamo morire... senza colpire a nostra volta».

Fissò a turno, per un breve istante, ogni uomo dallo schermo. «Non dobbiamo colpire a nostra volta. L'umanità sta per vivere in un inferno da essa stessa creato. Possiamo essere vendicativi... o misericordiosi, se così vi piace... e far partire le centinaia di bombe che abbiamo. Questo sterilizzerebbe il pianeta al punto che nessun microbo, nessun filo d'erba sfuggirebbe, e niente di nuovo potrebbe crescere. Ridurremmo la Terra a una cosa spoglia, morta e micidiale.

«No, non andrebbe bene, così. Non possiamo farlo.

«Ricordate la canzone? Quella è l'umanità. Quello rappresenta tutti gli esseri umani. Una malattia ha fatto sì che, per un po', altri umani fossero nostri nemici, ma, man mano scorrono le generazioni, i nemici diventano amici, e gli amici nemici. L'inimicizia di quelli che ci hanno ucciso è qualcosa di così minuscolo e fugace nel lungo arco della storia!»

La sua voce s'incupì: «Lasciamoci morire con la coscienza di aver fatto l'unica cosa nobile che ci restava. La scintilla dell'umanità può ancora vivere e crescere su questo pianeta. Potrà essere spazzata dal vento, travolta dalle onde infuriate, sconvolta in ogni altro modo, ma non estinta, e vivrà, se quella canzone dice il vero. Vivrà, se noi saremo tanto umani da dimenticare il fatto che la scintilla è oggi custodita dai nostri temporanei nemici. Alcuni — poi — dei loro figli vivranno per fondersi con la nuova umanità che emergerà gradualmente dalla giungla e dalle desolazioni. Forse ci saranno diecimila anni di bestialità, ma poi, forse, l'uomo riuscirà a ricostruire, mentre ancora esistono le sue rovine».

Sollevò la testa; la sua voce si fece ancora più squillante: «E anche se questa fosse la fine dell'umanità, non osiamo derubare le altre forme di vita della possibilità di riuscire là dove noi abbiamo fallito. Se dovessimo attuare una rappresaglia, non un solo cane, non un solo cervo, o scimmia, o uccello, o lucertola sopravviveranno, in grado di portare avanti la fiaccola dell'evoluzione. Nel nome della giustizia, se dobbiamo condannare e distruggere noi stessi, non condanniamo insieme a noi ogni altra forma di vita! Abbiamo già peccato fin troppo. Se dobbiamo distruggere, limitiamoci a distruggere noi stessi!»

Una frase musicale guizzò via rapida sullo sfondo. Parve agitare i suoi capelli come un alito di vento. Sorrise.

«È tutto», disse. E a ciascun uomo presente, aggiunse: «Buona notte...»

Lo schermo si spense. Quando anche l'onda portante s'interruppe — non vi fu nessun annuncio che la trasmissione era finita — gli ubiquitari corpuscoli di «neve» cominciarono a sfarfallare attraverso lo schermo. Pete si alzò e accese le luci, e spense l'apparecchio. Bonze e Sonny erano del tutto immobili.

Passarono parecchi minuti prima che Sonny si rizzasse a sedere, scuotendosi tutto come un cucciolo dopo il bagno. Con quel movimento, oltre al silenzio parve che qualcos'altro si lacerasse.

Sonny disse, a bassa voce: «Non ci è permesso di combattere contro niente e nessuno, né di scappare, né di vivere... e adesso non ci è neppure permesso di odiare, perché Starr ha detto "no"».

C'era amarezza nella sua voce, e un odore amaro nell'aria.

Pete Mawser annusò una, due volte l'aria. Poi s'irrigidì e l'annusò ancora. «Cos'è quest'odore, Son?»

Sonny annusò anche lui. «Non so... ma è qualcosa di familiare. Vaniglia... no, no...»

«Mandorle. Mandorle amare... Bonze!»

Bonze giaceva immobile, gli occhi aperti. Sorrideva. I muscoli della sua mascella erano tesi, aggrovigliati... e si potevano vedere quasi tutti i suoi denti. Era màdido di sudore.

«Bonze!»

«È stato proprio quando lei è apparsa e ha detto "Ciao... a te". Ricordi?» bisbigliò Pete.«Oh, povero ragazzo. È per questo che ha voluto seguire lo spettacolo da qui, invece che in sala mensa».

«È morto guardandola», disse Sonny attraverso le sue labbra impallidite. «Io... non posso dire che lo biasimi molto. Mi chiedo dove si sia procurato quella roba».

«Questo non importa». La voce di Pete si era fatta aspra. «Usciamo di qui».

Uscirono per chiamare l'ambulanza. Bonze giaceva là, immobile, gli occhi morti fissi sul video, avvolto nel suo odore di mandorle amare.

 

Pete non si rese conto di dove stesse andando, o perché, fino a quando non si trovò nella strada buia accanto al quartier generale e la baracca delle comunicazioni. Aveva qualcosa a che fare con Bonze. Non che anche lui volesse fare ciò che Bonze aveva fatto. D'altronde, non ci aveva mai pensato. Ma cosa avrebbe fatto, se ci avesse pensato? Niente, con tutta probabilità. Comunque... avrebbe potuto essere assai piacevole ascoltare Starr, e vederla, tutte le volte che ne avesse avuto voglia. Forse non c'era nessuna registrazione... ma il suo sottofondo musicale, quello sì era registrato. E magari, perché no?, l'addetto alle comunicazioni ci aveva pensato lui, di sua iniziativa, a registrare l'intero spettacolo.

Si soffermò incerto là fuori. C'era un gruppo di uomini fuori dell'ingresso principale. Pete ebbe un fugace sorriso. Non c'era pioggia, neve, grandine, o il semplice buio della notte, che potessero far sloggiare un fanatico in attesa alla porta del camerino.

Pete infilò la strada laterale e salì la rampa per la consegna delle merci che si trovava sul retro. Due porte più in là, lungo la piattaforma, c'era l'uscita posteriore della sezione comunicazioni.

Una luce era accesa dentro la baracca. Aveva già appoggiato la mano sul vetro della porta per aprirla, quando vide qualcuno immobile nell'ombra lì accanto. Il riflesso giocava delicatamente sul profilo dorato d'una testa e d'un viso.

Pete si fermò. «Starr Anthim!»

«Ciao, soldato. Sergente».

Pete arrossì come un adolescente. «Io...» Non riuscì più a parlare. Deglutì, sollevò una mano per togliersi il berretto. «Ho visto lo spettacolo», disse. Si sentiva impacciato. Era buio, eppure fu acutamente consapevole che le sue scarpe erano lucidate alla bell'e meglio.

La donna venne accanto a lui, uscendo alla luce, ed era talmente bella che Pete dovette chiudere gli occhi. «Qual è il tuo nome?»

«Mawser. Pete Mawser».

«Ti è piaciuto lo spettacolo?»

Senza guardarla, Pete rispose, con una punta d'asprezza: «Oh?»

«Voglio dire... mi è piaciuto in parte. La canzone».

«Credo... credo di capire».

«Mi chiedevo se per caso... forse potrei avere una registrazione...»

«Penso di sì», disse la donna. «Che tipo di riproduttore possiedi?»

«Audiovisivo».

«Un disco... sì. Ne abbiamo registrato qualcuno. Aspetta. Te ne porto uno».

Andò dentro, muovendosi lentamente. Pete la seguì con lo sguardo, incantato. Era una silgouette con corona e aureola, e poi divenne un quadro incorniciato, vivido e dorato. Pete aspettò, lo sguardo puntato avidamente alla luce. Starr fu di ritorno con una grande busta, diede la buona notte a qualcuno che si trovava là dentro, e uscì sulla piattaforma.

«Ecco qua, Pete Mawser».

«Oh, grazie, mille grazie», lui mormorò. S'inumidì le labbra. «È stato molto gentile da parte sua».

«No davvero. Più circola, meglio è». Tutt'a un tratto si mise a ridere. «Lo scopo non è quello che sembra. Non sto esattamente cercando di farmi nuova pubblicità... oggi».

L'ostinazione si fece udire di nuovo nella voce di lui: «Non so se l'avrebbe, se mettesse su quello spettacolo in tempi normali».

Starr sollevò le sopracciglia. «Bene!» disse sorridendo. «Pare che io abbia fatto una forte impressione».

«Mi spiace», replicò Pete con calore. «Non avrei dovuto scegliere questo binario. Tutto ciò che uno oggi pensa e dice assume toni esagerati.

«So cosa vuol dire». Si guardò intorno. «Come vanno le cose, qui?»

«Bene. Un tempo tutta questa segretezza m'infastidiva, e anche il fatto di trovarmi sepolto a miglia e miglia dalla civiltà». Ebbe una risatina amara. «Ma si è rivelata una fortuna, dopotutto».

«Lei parla come il primo capitolo di Un Mondo o Nessuno».

Pete alzò di scatto lo sguardo e la fissò: «Che cosa legge, lei, di solito? L'Index Expurgatorious del governo?»

Starr scoppiò a ridere: «Oh, suvvia, adesso... non è poi così brutta. Quel libro non è mai stato bandito. Era solamente...»

«... fuori moda», completò Pete.

«Sì, e questo è un peccato. Se la gente vi avesse prestato più attenzione quando è stato pubblicato, forse tutto questo non sarebbe successo».

Pete seguì lo sguardo di Starr fino al cielo ammiccante. «Per quanto tempo resterà qui?»

«Fino... fino a quando... non me ne andrò».

«Non se ne andrà?»

«Sono finita», lei disse, con semplicità. «Ho coperto tutto il territorio possibile. Sono stata dappertutto... in tutti i posti che si conoscono».

«Con questo spettacolo?»

Starr annuì: «Con questo specifico messaggio».

Pete rimase silenzioso, soprappensiero. Starr si girò verso la porta, e Pete tese la mano, senza però toccarla. «Per favore...»

«Cosa c'è?»

«Vorrei... voglio dire, se non le spiace, non ho spesso la possibilità di parlare a... Forse le piacerebbe fare un giretto prima di rientrare».

«Grazie, no, sergente. Sono stanca». La voce era davvero stanca. «Ci rivediamo».

Pete la fissò. All'improvviso nel suo cervello si era accesa una luce accecante. «So dove si trova... È una leva dall'impugnatura rossa, con un'etichetta che fa riferimento agli ordini dell'ufficiale comandante. È davvero ben camuffata».

Starr rimase silenziosa tanto a lungo che Pete pensò che non l'avesse sentito. Poi: «Verrò a fare quel giretto».

Discesero insieme la rampa e svoltarono verso la piazza d'armi.

«Come ha fatto a saperlo?» gli chiese con calma.

«Non è stato troppo difficile. Quel suo "messaggio''; il fatto che lei l'abbia portato dappertutto attraverso il paese; soprattutto il fatto che qualcuno trovi necessario persuaderci a non compiere nessuna rappresaglia. Per chi lavora?» concluse Pete, brusco.

Sorprendentemente, Starr scoppiò di nuovo a ridere.

«Perché ride?»

«Un momento fa arrossiva, era imbarazzato...»

La voce di Pete suonò ancora più aspra: «Non stavo parlando a un essere umano. Mi rivolgevo a mille canzoni che avevo sentito e a centomila fotografie bionde che ho appeso ai muri. Farà meglio a dirmi di che si tratta».

Starr si fermò. «Saliamo di sopra dal colonnello».

Pete l'afferrò per il gomito. «No. Io sono soltanto un sergente, e lui è un pezzo grosso, anche se adesso, questo non fa più nessuna differenza. Lei è un essere umano, e anch'io lo sono, e io dovrei rispettare i suoi diritti e cose del genere. Ebbene, no, lei è una donna, e...»

Starr s'irrigidì. Pete la costrinse a continuare a camminare, e concluse: «... questo farà differenza soltanto se lo permetterò io. Farà meglio a dirmelo».

«Va bene», disse Starr, con una stanca acquiescenza che spaventò qualcosa dentro di lui. «Comunque, tu sembri aver indovinato giusto. È vero. C'erano diverse chiavi maestre per attivare i siti di lancio. Le abbiamo localizzate e smantellate tutte, tranne due. È molto probabile che una sia finita... vaporizzata. E l'ultima era andata... smarrita».

«Smarrita?»

«Non devo certo spiegare a te cosa sia la segretezza», lei dichiarò disgustata. «Tu sai fin troppo bene come si sia sviluppata tra nazione e nazione. E sai che esisteva anche fra gli stati e l'Unione, fra dipartimento e dipartimento, tra ufficio e ufficio. C'erano soltanto tre o quattro uomini che sapevano dove si trovavano tutte le chiavi. Tre di loro si trovavano al Pentagono quando è andato distrutto. Come sai, quella è stata una boùba esplosiva... la terza. Se c'era un altro uomo che lo sapeva, quello poteva essere soltanto il senatore Vandercook, ed è morto tre settimane fa senza parlare».

«Una radioserratura automatica, uhmmm...?»

«Proprio così, sergente. Dobbiamo proprio camminare? Sono così stanca...»

«Mi spiace», fece Pete d'impulso. Raggiunsero le tribune e si sedettero sulle panche deserte. «Rastrelliere di lancio sparse dappertutto, tutte nascoste e tutte armate?»

«La gran parte di esse sono armate. Quel che basta. Armate e puntate».

«Puntate dove?»

«Non ha importanza».

«Credo di capire. Può dirmi qual è il numero ottimale per una distruzione totale?».

«Circa seicentoquaranta, un po' più, un po' meno. E a noi ne sono state lanciate, finora, cinquecentotrenta. Noi non sappiamo il numero esatto, ma...»

«Noi chi?» l'interruppe, fremente, Pete.

«Chi? Chi?» Starr ebbe un pallido sorriso. «Potrei dire "il governo", forse. Se il presidente muore, il vicepresidente prende il potere, e dopo di lui il presidente del senato, e così via. Fino a dove si può arrivare... Pete Mawser, non ti rendi ancora conto di ciò che è accaduto?»

«Non so cosa voglia dire».

«Quanta gente credi sia rimasta nel paese?»

«Non lo so. Qualche milione, immagino».

«E qui, quanti ce ne sono?»

«Circa novecento».

«Allora, per quanto io ne so, questa è la più grande città rimasta».

Pete balzò in piedi. «NO!» La sillaba ruggì fuori dalle sue labbra, rimbalzò violenta contro gli edifici bui e vuoti, e tornò a lui in una successione di echi sempre più deboli: No-nonono... nono... no...

Starr riprese a parlare rapidamente, ma senza affanno: «Sono sparpagliati dovunque, nei campi e sulle strade. Siedono al sole la mattina e muoiono al pomeriggio. Si aggirano in branchi, si fanno a brani tra loro. Pregano, muoiono di fame, si suicidano e finiscono arsi in mezzo agli incendi. Gli incendi... scoppiano dappertutto, qualunque cosa sia rimasta in piedi, brucia. È estate, e nel Berkshire tutte le foglie sono a terra, l'erba è bruciata ed è diventata marrone; dal cielo le distese sempre più grandi d'erba che muore si vedono chiaramente... la morte che si diffonde in cerchi sempre più ampi dalle aree spoglie. Il Tuono e le Rose... Ho visto rose, nuove rose, che strisciavano fuori dai vasi infranti d'una serra. Petali marrone, vivi e malati, e le spine ripiegate su se stesse, che trapassano i propri petali, uccidendoli. Stanotte è morto Feldman».

Pete rispettò il suo silenzio per un po'. Poi chiese: «Chi è Feldman?»

«Il mio pilota». Starr stava parlando con voce vuota e il volto tra le mani. «Stava morendo da settimane. Era allo stremo delle forze. Non credo che gli fosse rimasta una sola goccia di sangue. Ha chiamato il vostro Quartier Generale e ha puntato verso la pista di atterraggio. È sceso col motore spento, le pale che giravano a vuoto. Ha fracassato il carrello di atterraggio. Era morto, ormai. Ha ucciso un uomo, a Chicago, per procurarsi la benzina. Quell'uomo non voleva la benzina per sé. C'era una ragazza morta vicino alla pompa, e quell'uomo non voleva lasciar avvicinare nessuno... No, non andrò più da nessuna parte. Rimarrò qui, sono stanca».

Finalmente, Starr pianse.

Pete la lasciò sola e s'incamminò verso il centro della spianata, sbirciando dietro di sé il debole riflesso delle gradinate. La sua mente ripassò, guizzando, lo spettacolo di quella sera, e il mondo in cui Starr aveva cantato davanti allo spietato trasmettitore. «Ciao... a te». «Se dobbiamo distruggere, evitiamo di distruggere noi stessi!»

La scintilla sempre più fioca dell'umanità... cosa poteva significare per lei? E perché mai significava così tanto?

«Il Tuono e le Rose». Rose contorte, malate, senza alcuna possibilità di sopravvivere, che si uccidevano con le proprie spine.

«E il mondo era un luogo di luce! Luce azzurra che tremolava nell'aria contaminata.

Il nemico. La leva dipinta di rosso. Bonze. «Pregano e muoiono di fame e si suicidano e bruciano negli incendi».

Che razza di creature erano questi umani, corrotti, violenti, assassini? Che diritto avevano a un'altra possibilità? Cosa c'era di buono in loro?

Starr era buona. Starr stava piangendo. Soltanto un essere umano poteva piangere così. Starr era un essere umano.

L'umanità aveva in sé qualcosa di Starr Anthim?

«Starr era un essere umano.

Pete abbassò lo sguardo sulle sue mani, attraverso il buio. Nessun pianeta, nessun universo, è più grande, per un uomo, del proprio ego, del proprio io che osserva. Quelle mani, erano le mani di tutta la storia, e come le mani di tutti gli uomini, potevano, con le loro azioni, costruire la storia umana oppure porvi fine. Se questo potere delle mani era quello d'un miliardo di mani, o se veniva messo a fuoco soltanto su quelle due — questo era d'un tratto poco importante rispetto all'eternità che adesso lo avvolgeva.

Affondò ancora di più nelle tasche le mani dell'umanità e tornò lentamente verso le tribune.

«Starr».

La donna gli rispose con un uggiolio interrogativo da bambina addormentata.

«Avranno la loro possibilità, Starr. Non toccherò quella chiave».

Starr si rizzò a sedere. Poi si alzò in piedi e gli venne incontro sorridendo. Riusciva a vedere il suo sorriso perché sia pure debolmente in quell'aria, i suoi denti erano fluorescenti. La donna gli appoggiò le mani sulle spalle. «Pete».

Lui la tenne stretta a sé per un attimo. Fu allora che le ginocchia della donna si piegarono e lui dovette trasportarla di peso.

 

Non c'era nessuno nel Club Ufficiali, che era l'edificio più vicino. Pete entrò incespicando e si mosse a tentoni lungo la parete fino a quando non trovò un interruttore. L'illuminazione improvvisa gli fece male agli occhi. Trasportò Starr fino a un divano e ve la depose con delicatezza. Starr non si muoveva. Un lato del suo viso era bianco come il latte.

Pete si accorse che le proprie mani erano sporche di sangue.

Rimase lì a fissarlo stupidamente, poi l'asciugò sui fianchi dei calzoni, fissando Starr come intontito. C'era del sangue sulla sua camicia.

L'eco del suo no gli ritornò dalle lontane pareti della grande stanza prima ancora di rendersi conto di aver parlato. Starr non avrebbe fatto una cosa del genere... Non poteva!

Un dottore. Ma non c'era nessuno dottore. Non più, da quando Anders s'era impiccato... Chiama qualcuno! Fai qualcosa!

Si lasciò cadere sulle ginocchia e con delicatezza le slacciò la camicia. Fra il robusto e assai poco femminile reggiseno militare e il bordo superiore dei calzoni, lì sul fianco, c'era sangue. Pete tirò fuori un fazzoletto e cominciò a ripulirlo. Non c'era nessuna ferita, nessuna perforazione. Ma d'un tratto il sangue ricomparve. L'asciugò con molta attenzione. E di nuovo ci fu il sangue.

Era come cercare di asciugare un pezzo di ghiaccio con un asciugamano.

Pete corse fino al distributore dell'acqua fredda, strizzò il fazzoletto insanguinato e si affrettò di nuovo accanto a lei. Le bagnò il viso con attenzione, il lato destro, così pallido, e l'arrossato sinistro. Il fazzoletto tornò nuovamente a tingersi di rosso, stavolta imbrattato di cosmetici, e poi il suo volto fu pallido dovunque, con grandi ombre azzurre sotto gli occhi. Mentre guardava, sulla sua guancia sinistra comparve del sangue.

Doveva esserci qualcosa... si precipitò verso la porta.

«Pete!»

Si voltò di scatto a quella voce, continuando a correre, e andò a sbattere contro lo stipite della porta. L'urto lo lasciò stordito, mentre rimbalzava e agitava le braccia per riprendere l'equilibrio. E poi fu di nuovo al suo fianco. «Starr! Aspetta, adesso! Farò venire un dottore al più presto...»

La mano di Starr andò alla propria guancia sinistra. «L'hai scoperto. Nessun altro lo sapeva, salvo Feldman. Era diventato difficile coprirlo come si deve». Sollevò la mano fino ai capelli.

«Starr, chiamerò un...»

«Pete, tesoro! Promettimi una cosa».

«Oh, ma sì, sicuro... certamente, Starr».

«Non toccare i miei capelli. Non sono... tutti miei, capisci». Pareva una bambina di sette anni che stesse facendo un gioco. «Su questo lato si sono staccati tutti, capisci? Non voglio che tu mi veda così».

Pete si era di nuovo inginocchiato accanto a lei. «Ma cos'è? Cosa ti è successo?» chiese con voce rauca.

«A Filadelfia», mormorò lei. «Proprio all'inizio. Il fungo si alzò a mezzo miglio di distanza. Il teatro crollò. Rinvenni il giorno seguente. Allora non sapevo di essere rimasta bruciata. Sul mio lato sinistro. Ma non importa, Pete. Adesso non mi fa più male».

Pete balzò in piedi. «Vado a cercare un dottore».

«Non andar via. Per favore, non lasciarmi sola. Non farlo...» C'erano lagrime nei suoi occhi. «Aspetta soltanto un pochino. Non molto, Pete».

Pete s'inginocchiò un'altra volta ancora. Starr gli prese entrambe le mani e le strinse fra le sue. Sorrise felice. «Sei buono, Pete. Sei così buono...»

(Lei non pareva sentire il sangue nelle sue orecchie, il rombare di quel vortice d'odio, di paura e di angoscia che turbinava dentro di lui).

Gli parlò a bassa voce, e poi a sussurri. A volte, Pete si odiava perché, per quanto si sforzasse, non riusciva a seguirla del tutto. Gli stava parlando dei suoi anni di scuola e della sua prima audizione. «Avevo tanta paura che mi uscì un vibrato nella voce. Non mi era mai capitato prima. Anche adesso, quando canto, mi prende sempre un po' di paura. Non riesco a evitarlo...» E poi disse qualcosa su un vaso da fiori, di quando aveva quattro anni: «Due veri tulipani e una nepente della California. E mi dispiaceva sempre, per le mosche.».

Dopo quest'ultima frase, vi fu un lungo periodo di silenzio, durante il quale Pete sentì i muscoli pulsargli per i crampi, irrigidirsi e infine intorpidirsi. Doveva essersi anche addormentato un po', ma si riscosse con un sussulto quando sentì delle dita sul suo viso. Starr si era sollevata su un gomito e la sua voce suonò chiara: «Volevo giusto dirti, tesoro... lascia che vada io per prima e ti prepari tutto... Sarà meraviglioso. Ti farò un'insalata mista tutta speciale. Ti preparerò un budino di cioccolato e lo terrò caldo per te».

Pete era troppo confuso per capire ciò che lei stava dicendo, le sorrise e la risospinse di nuovo, dolcemente, distesa. Starr tornò a stringergli le mani tra le sue.

Quando si risvegliò la volta successiva era pieno giorno, e lei era morta.

Quando tornò in caserma, trovò Sonny Weisefreund seduto sulla branda. Gli porse la registrazione che si era ricordato di prender su, dallo spiazzo davanti alle tribune. «È bagnata di rugiada. Asciugala», gracchiò, e cadde bocconi sulla branda che era stata di Bonze.

Sonny lo fissò. «Pete! Dove sei stato? Cos'è successo? Stai bene?».

Pete si mosse un po' e grugnì. Sonny scrollò le spalle e tirò fuori il disco audiovisivo dalla busta. L'umidità non poteva danneggiarlo, anche se non poteva essere visionato finché non fosse stato perfettamente asciutto.

Era formato da una sottile spirale di plastica, con interposti, fra le spire, strati di sostanza neutra. Dei rivelatori di campo elettrico, sopra e sotto la superficie del disco, avrebbero fluttuato secondo le variazioni della costante dielettrica stabilmente impresse nel corso della registrazione. E questi cambiamenti sarebbero stati amplificati nei circuiti video e quindi ritrasmessi allo schermo. L'audio veniva attivato da una normale puntina grammofonica. Sonny cominciò ad asciugare il disco con molta attenzione.

Pete lottò, per non abbandonare un luogo immenso illuminato di verde e pieno di tremolanti fuochi gelidi. Starr lo stava chiamando. E c'era anche qualcosa che lo stava colpendo. Lottò debolmente contro questa intrusione, cercando di ascoltare ciò che lei stava dicendo, anche se c'era qualcun altro che stava urlando troppo forte...

Aprì gli occhi. Sonny lo stava scuotendo, il suo volto tondo era arrossato dall'eccitazione. L'autovideo era in azione. Starr stava parlando. Sonny si rialzò, e spense l'audio con un gesto impaziente. «Pete! Pete! Vuoi svegliarti? Devo dirti qualcosa. Ascoltami! Allora, ti vuoi svegliare, uh?»

«Uh?»

«Così va meglio. Adesso ascolta. Ho appena ascoltato Starr Anthim...»

«È morta», disse Pete. Sonny non lo sentì. Continuò, quasi ruggendo: «Ho capito tutto. Starr è stata mandata qui per implorare qualcuno, perché non venissero più lanciate bombe atomiche. Se il governo fosse stato sicuro che nessuno era in grado di scatenare una rappresaglia, non si sarebbero presi la briga di mandarla. Da qualche parte, Pete, c'è il modo di scagliare le nostre bombe contro quei bastardi assassini... e io ho... sì, ho una precisa idea di come sia possibile farlo».

Stordito, Pete si sforzò di riascoltare il lontano suono della voce di Starr. Sonny continuò a parlare: «Adesso, supponi che ci sia una radio-chiave centrale, un congegno automatico in codice come il segnale di allarme che hanno sulle navi, che fa squillare un campanello su ogni nave a portata d'onda radio quando l'operatore fa quattro linee lunghe... Supponi che esista una macchina automatica con un codice preciso per lanciare le bombe, con dei ripetitoti, forse, sepolti un po' dappertutto nel paese. Cosa ci sarebbe, allora? Soltanto una piccola leva da tirare, nient'aìtro. E come sarebbe nascosta? In mezzo a un sacco di altre apparecchiature, in qualche posto in cui ti aspetti di trovare roba segreta che pare uscita dal cervello d'un matto. Come, sì, come un laboratorio sperimentale. Proprio come questo posto. Cominci a capire la mia idea?»

«Chiudi il becco. Non riesco a sentirla».

«Al diavolo lei! Potrai ascoltarla in qualche altro momento. Tu non hai sentito niente di quello che ti ho detto!»

«Lei è morta».

«Già. Be', credo che sarò proprio io a tirare quella leva. Cos'ho da perdere? Darò a quegli assassini... Cosa

«È morta».

«Morta? Starr Anthim?» Il suo giovane viso si contorse, Sonny si accasciò sulla branda. «Sei mezzo addormentato. Non sai quello che stai dicendo».

«È morta», ripeté Pete con voce rauca. «È rimasta bruciata da una delle prime bombe. Ero con lei... con lei. Chiudi il becco, adesso, esci di qui e lasciami ascoltare!» urlò.

Sonny si alzò in piedi lentamente. «Hanno ucciso anche lei. Sì, l'hanno uccisa. Questo è troppo. Questo risolve la questione». Era diventato pallidissimo. Uscì dalla stanza.

Pete si alzò. Le sue gambe non funzionavano bene. Rischiò di finire lungo disteso sul pavimento. Riuscì per miracolo ad aggrapparsi alla consolle, col braccio teso riuscì ad arrivare al rivelatore del disco e lo rimise in posizione. Fece scattare l'interruttore e alzò il volume, poi si ridistese ad ascoltare.

Dentro la sua testa, era tutto un ribollire.

Sonny aveva parlato troppo: lanciabombe automatici, controllo centrale, segnali in codice...

«Mi desti il tuo cuore», cantava Starr, «mi desti il tuo cuore, mi desti il tuo cuore, mi...»

Pete si risollevò e spostò il braccio del rivelatore, infuriato non con se stesso, ma con Sonny che gli aveva fatto rigare il disco in quel modo.

Starr stava parlando, sullo schermo, il suo volto ripeteva ininterrottamente, stupidamente, la stessa frase: «Colpiti da oriente e colpiti da occidente, colpiti da...»

Si risollevò, in preda a un'infinita stanchezza, e spostò un'altra volta il rivelatore.

«Mi desti il tuo cuore, mi desti...»

Pete lanciò un'esclamazione angosciata, che non si articolò in parole, si piegò, e fece cadere al suolo il videofonografo con uno schianto. Nel silenzio crescente disse: «Anch'io l'ho fatto».

Poi: «Sonny». Aspettò.

«Sonny!»

Allora i suoi occhi si spalancarono, imprecò e si precipitò fuori, nel corridoio.

 

Quando lo raggiunse, il pannello era chiuso. Gli sferrò un calcio e l'aprì, scoprendo il buio più oltre.

«Ehi!» urlò Sonny. «Chiudilo! Hai spento le luci!»

Pete si chiuse la porta alle spalle. Le luci avvamparono.

«Pete! Cosa c'è?»

«Non c'è niente, Son», gracchiò Pete.

«Cosa stai guardando?» chiese Sonny, a disagio.

«Mi spiace», disse Pete, con quanta più gentilezza poteva. «Volevo soltanto scoprire qualcosa, tutto qui. Hai parlato di questa con qualcun altro?» Gli indicò la leva.

«Diamine, no. L'ho capito giusto un attimo fa, quando tu stavi ancora dormendo, praticamente adesso».

Pete si guardò intorno con cautela, mentre Sonny spostava il suo peso. Pete si avvicinò alla rastrelliera degli arnesi. «C'è qualcosa che non hai ancora notato, Sonny», disse a bassa voce, e puntò il dito. «Lassù, sul muro dietro di te. In alto. Lo vedi?»

Sonny si voltò. Con un unico, fulmineo movimento Pete staccò una chiave inglese da trentacinque centimetri e colpì Sonny con tutte le sue forze.

Dopo, si mise a lavorare sistematicamente sulle fonti d'energia. Strappò le candele dai motori a gas e fracassò i loro cilindri con una mazza. Fece saltare i tubi d'avviamento del Diesel... i serbatoi esplosero... e tagliò i cavi con un tronchese. Poi spaccò il pannello coi relé e la leva dipinta in rosso. Quand'ebbe veramente finito del tutto, mise via gli arnesi che aveva usato, si chinò e accarezzò i capelli arruffati di Sonny. Uscì, e chiuse con cura la porta segreta. Sì, era proprio un bellissimo lavoro di mimetizzazione. E si sedette pesantemente su un banco da lavoro lì vicino.

«Avete la vostra possibilità», disse, rivolto al lontano futuro. «E, perdio, farete bene a sfruttarla nel migliore dei modi!»

Dopo, rimase lì ad aspettare.

 

FINE